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Il quinto elemento di Caffè Lazzarelle

Il Novembre 20, 2019Novembre 20, 2019
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Caffè Lazzarelle è molto più di una semplice cooperativa è un mix sapiente e responsabile di futuro, donne, etica, tradizione e di un quinto elemento. E come tutte le ricette di successo è davvero difficile svelarne l’esatta composizione, si riesce al massimo a isolare qualche ingrediente, nell’illusione di averne colto l’essenza.

Proiettarsi nel futuro, oltre l’esperienza detentiva

La genesi è legata alla ricerca di percorsi di inserimento e inclusione sociale all’interno della dura realtà carceraria italiana. La torrefazione nasce nel 2010, nella Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli (NA), impiegando le detenute disposte a proiettarsi nel futuro, pronte ad andare oltre l’esperienza detentiva. Il futuro va qui inteso come opportunità di costruirsi un percorso lavorativo oltre le sbarre, in grado di aggiungere aspettative per una popolazione tagliata fuori dal mercato del lavoro.

Come si legge sul sito del portale di putecadigitale.it «Molte di loro non avevano mai avuto un regolare contratto di lavoro. Nella cooperativa “imparano un mestiere”, ma soprattutto acquisiscono coscienza dei loro diritti e delle loro potenzialità». Perché come sottolinea il fattoresociale.it nella sua scheda dedicata a Lazzarelle, «solo il lavoro offre dignità e possibilità di riscatto reale».

Il gusto della libertà, l’aroma di caffè, il Golfo di Pozzuoli

Dal 2010 ad oggi sono 62 le donne che hanno contribuito all’affermazione di questo progetto, nato grazie ad un finanziamento della Regione Campania. Si tratta in ogni caso di detenute con condanna definitiva, le uniche che possono accedere al progetto.

La casa Circondariale ospita 198 detenute, il doppio rispetto alla naturale capienza della struttura. Secondo la ricostruzione di Giuseppe Mazzella (polizia-penitenziaria.it), la struttura è ospitata in un convento del XV secolo, fondato dai frati minori, restaurata da don Pedro di Toledo e a seguito del sisma del 1538, dedicata ad usi molto diversi, come sede di una confraternita di marinai, area cimiteriale e residenza estiva dei seminaristi diocesani. Solo dopo l’Unità d’Italia, il convento fu definitivamente destinato ad uso carcerario.

È un carcere con affaccio sull’incredibile Golfo di Pozzuoli, dal quale ammirare il frastagliato panorama in cui si distinguono Capo Miseno, Procida e più nello sfondo Ischia. Ma se «l’odore del mare è forte perché filtra attraverso le sbarre» è l’aroma di caffè che lascia presagire il gusto della libertà.

Evitare il buco nero della detenzione, con la polvere di caffè nei calzini

Bruno Delfino, sulle colonne del corriere.it è riuscito a catturare il senso più profondo di questa esperienza, grazie alle testimonianze raccolte tra le protagoniste: «Qualcosa di positivo, per la prima volta nella mia vita; quando ritorno in cella ho la polvere di caffè fin nei calzini però sono contenta; spero che questa esperienza mi faccia cambiare vita; a colloquio ho parlato di questa esperienza con mia figlia, mia madre e mia nonna, erano fiere di me».

Nelle parole della presidente Carpiniello, si coglie lo spirito del progetto: «L’idea di fondo è quella di investire risorse umane ed economiche in un percorso di formazione e produzione. L’obiettivo è duplice: da un lato favorire il rapporto con l’esterno per evitare il rischio buco nero della detenzione; dall’altro costruire un’impresa capace di stare sul mercato con un prodotto artigianale etico e legato al territorio. Ma è anche un modo per ricordare e riaffermare che quando parliamo di politiche di pari opportunità bisogna costruire, nei luoghi dove le donne sono più vulnerabili, pratiche di inserimento e protezione sociale. Ecco allora che anche un caffè è un passo verso la strada della libertà».

Premi, etica ed equità

La dimensione etica è davvero abbondante e la si evince dalla sfilza di premi che il progetto ha raccolto: “Premio Amato Lamberti 2017”,  “Woman Entrepreneur of the Year Award 2017”, “Vesuvio d’oro 2019”, “Economia civile 2019”. Ma l’etica non si esaurisce nella vocazione al reinserimento lavorativo e sociale delle detenute e si estende alla ricerca di equità solidale che raggiunge la produzione della materia prima.

I grani di caffè sono infatti acquistati dalla cooperativa Shadilly che promuove progetti di cooperazione con i piccoli produttori. Sul suo sito si leggono claim che celebrano il “rispetto” per una serie di valori come “persone e del loro lavoro”, “integrazione delle tradizioni”, “formazione, sviluppo e consapevolezza”, “qualità lungo tutte le fasi del processo”, “ricerca di un mercato giusto e certezza di un prezzo equo”. Attraverso un circuito di cooperative, associazioni e organizzazioni collegate, la materia prima arriva dal Guatemala, Porto Rico, Sudan, India e Malesia.

La tradizione del caffè napoletano

E veniamo alla tradizione. Pare che la prima pianta di caffè sia stata avvistata nel 1592 in Egitto (dal medico italiano Prospero Alpino), sbarcato a Venezia nel 1615 e giunto a Napoli alla fine del XVII secolo. Dalla metà del XIX secolo Napoli diventa capitale del consumo di caffè, ospitando il numero più alto di caffè, intesi come luoghi di consumo, rispetto alle altre città europee (fonte: A. Lepre, Civiltà del caffè a Napoli).

Secondo l’antica scuola di torrefazione artigiana partenopea, il caffè è prodotto senza alcun additivo ma rispettando i tempi naturali di preparazione. La maestria di tradizione napoletana risiede nella miscelazione di diverse varietà e nella tostatura dei chicchi, fino a dieci volte più lenta rispetto a quella industriale che riesce a far emergere la complessità aromatica del caffè. È bene ricordare che il chicco in fase di cottura cambia la sua morfologia, diminuisce di peso aumentando di volume, cambiando di colore. Una volta tostato va conservato per una decina di giorni e infine macinato e impacchettato. La miscela ottenuta con questo metodo potrà essere apprezzata a livello visivo, olfattivo, gustativo e retro-gustativo. Di questa tradizione, Caffè Lazzarella custodisce la memoria, rinnovandola nella lavorazione del suo prodotto, fino a renderlo di qualità e competitiva con i grandi marchi del settore.

Quinto elemento: il brand!

Siamo infine giunti al quinto elemento che secondo l’antica cosmologia greca designa la materia dei corpi celesti, in aggiunta ad acqua, aria, terra e fuoco. Il quinto elemento in questo, come in tantissime altre aziende, è il brand, inteso come capacità di narrarsi, oltre che per quello che si produce anche per i sui tratti immateriali (valori, filosofia, visione). Caffè Lazzarelle lascia nel baule il disegno che per tanti anni ha definito la sua identità a favore di un design pubblicitario realizzato dalla Accademia delle Belle Arti di Napoli (https://www.behance.net/gallery/87921969/Lazzarelle-Logo).

Abbiamo chiesto alla presidente Carpiniello le ragioni dell’attaccamento al vecchio logo e se il recente restyling abbia incontrato resistenze ed eventualmente di che tipo, ricevendo in regalo un brano inedito di storia aziendale: «Il vecchio logo è frutto di un processo di progettazione partecipata, condotto con tutte le detenute del carcere. Tutte parteciparono al processo creativo di creazione del logo. Ognuna di loro fu chiamata a esprimersi sul significato del progetto, tanto da far venire fuori immagini come il Golfo di Napoli che evocava i luoghi della produzione, il Vesuvio, come ritratto oleografico ricorrente e per molti versi imprescindibile dalle nostre parti, infine il treno che usciva dal tunnel, poiché rispecchiava il mezzo potenziale che avrebbe potuto condurle fuori, come possibilità di riscatto. Lo sbuffo del treno evocava la macchinetta, il fumo e tutti i riferimenti diretti all’iconografia classica del caffè»

Cerchi concentrici

Il nuovo marchio mantiene un forte legame con il payoff originario “Lazzarelle non si nasce. Si diventa”, ispirato a Simone de Beauvoir, scrittrice e filosofa femminista francese.

Il suo disegno attuale ha una forma minimalista che si sostanzia in un pittogramma sferico raffigurato in una tazzina magenta vista dall’alto, con il manico stilizzato che assume le sembianze di un punto. Tre cerchi concentrici che dal bordo esterno della tazza conducono a quello più interno della crema di caffè, tracciando una “C” a forma di uncinetto (o di manetta) che punta verso l’alto, come se il puntino provasse ad uscire fuori dal cerchio più esterno (quasi un lucchetto aperto), anzi in effetti, a guardarlo bene il puntino è fuori, pur essendo parte dello stesso disegno. Il colore magenta più vicino al viola che al rosso, racconta perfettamente la cooperativa di sole donne.

Un segno all’altezza delle sfide attuali e di quelle future. Sono 50mila i pacchetti di caffè macinato da 250 grammi prodotti ogni anno, decine i punti vendita in Italia e all’estero in cui è commercializzato, fino alla presenza del punto «Bistrot Lazzarelle», vetrina di prodotti dell’economia carceraria presto nella Galleria Principe di Napoli, di fronte al Museo Archeologico Nazionale.

 

di Lucio Iaccarino

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